Quando la gente ha “paura” di scrivere sui social

Non sono mai stato un fanatico utilizzatore di social network: ho sempre guardato con sospetto quella modalità di interazione basata su like, cuoricini e commenti mai del tutto autentici, quell’atmosfera rarefatta in cui – rigirandola come preferite, alla fine – tutti hanno ragione e, paradossalmente, un po’ di torto.

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Esiste tanta gente che, a mio avviso, non dice la sua per paura di essere contraddetta o attaccata, e questo genera una insana polarizzazione tra estremismi (i moderati o ragionevoli, di fatto, non sempre vengono considerati sui social, anche per colpa del meccanismo del rating dei contenuti per cui vale semplicemente che la maggioranza ti metta like, non importa chi siano). Non avete mai avuto paura di scrivere un certo commento magari polemico per affermare le vostre idee, e poi frenarvi dal farlo per paura di essere cyber-bullizzati, derisi, attaccati o magari screenshottati da qualcuno?

Molte persone, nel sentire di una paura del genere, tenderebbero secondo me a banalizzare e a fare spallucce: è sintomo di insicurezza. A mio avviso pero’ quest’ultima è solo una parte di un problema più radicato, e legato anche alle dinamiche sociali, che proverò ad analizzare un po’ in questa sede, per un articolo che avevo in testa da mesi e che solo adesso trovo il tempo di scrivere.

Social for fake

La mia sensazione generale è che quasi nessuno dica la verità, sui social, e che i nostri profili siano la sintesi non di ciò che siamo ma di quello che vorremmo sembrare, seguendo idee preconcette e modelli che, in alcuni casi, andrebbero solo sovvertiti e riscritti da zero. Non sempre riusciamo nell’impresa di costruire personaggi “comunicativi” ed efficaci: potrebbero sempre darvi del nazista, sui social, anche se siete di idee completamente opposte a quelle di Hitler.

In alcuni casi, per restare sul pezzo, mi sono rimesso in discussione per una mia certa spigolosità di fondo in certi interventi (soprattutto in presenza di fake news o hype generale un po’ troppo conformistico, con un atteggiamento molto sulla falsariga di un debunker classico) e, in questo, da qualche anno ho iniziato a correggere un po’ il tiro. Lavorando, silenziosamente su di me e provando a riscrivere meglio un sistema di valori quantomeno più flessibile e, per usare una parola molto di moda, resiliente. Senza che ciò intacchi la mia convinzione, ovviamente: le fake news fanno male, e non devono essere diffuse.

Evitare lo scontro

L’ho fatto, ma in maniera forse non esemplare: assumendo un atteggiamento evitante che, con qualche sforzo, sto cercando di correggere ulteriormente. Certo dipende molto dai casi: evito come la peste, ad oggi, certe community in cui se ti azzardi ad esprimere certi pareri non conformi alla maggioranza (e parlo di community lavorative, musicali, politiche senza escludere veramente nessuno) vieni preso di mira, attaccato, criticato e declassato a scemo del villaggio con una facilità che trovo, ancora oggi disarmante. In questo atteggiamento vige, e lo scrivo con la massima sincerità, una forma di narcisismo che mi sembra estraneo alle mie corde, ma che potrebbe essere una spiegazione a questo mio irrigidimento sociale.

In altri termini, per me la cosa migliore da fare è non partecipare a certe discussioni, e questa cosa (per quanto citi un film splendido nel suo significato generale) non è detto che sia la strada maestra da seguire.

La paura di usare i social network per ciò per cui sono stati concepiti (che ognuno possa dire la sua, liberamente e senza filtro) si scontra con mille pregiudizi, giudizi severi su sè stessi e sugli altri, oltre ad un sano nichilismo che porta, alla lunga, uno sconforto generale nelle idee e nelle prospettive che oggi, nessuno escluso, viviamo tra una zona rossa e l’altra.

È quasi uno stereotipo (e non è proprio esatto, secondo me), con buona pace del buon Umberto Eco, che i social siano esclusivamente popolati da “legioni di imbecilli”: certo, molti di noi dovrebbero rivedere il proprio modo di pensare, ma dovrebbero anche gestire meglio il proprio modo di esprimere certe idee.

Due libri mi sono rimasti impressi, e da questo provo (molto poco formalmente) a tirare fuori qualche possibilità per gestire al meglio il rapporto coi social – e con noi stessi, magari.

Sui social nessuno sembra cambiare idea

Noi in ansia sui social network, dicevamo. Ebbene, ho notato che si verificava una cosa che mi ha sempre allarmato ed incuriosito al tempo stesso: in molti contesti avevo “paura”, se posso dire così, a dire la mia in pubblico, preso dalla sostanziale paura di essere criticato o di incappare nella echo chamber non affine a me. Che paura assurda: è un po’ come se uno manifestasse, per una causa per lui giusta, nel vuoto della propria cameretta, per paura di essere sbertucciato da chi non è d’accordo con lui.

Una “echo chamber“, tanto per capirci, non è altro che una stanzetta virtuale in cui, alla fine dei conti, presi dal blastare il prossimo, ci riduciamo a sentire il banale ed asettico eco della nostra stessa voce, ignorando superbamente chiunque osi contraddirci (e badate bene, la verità in tutto questo è la cosa meno importante: l’importante è trovare conferma alle nostre convizioni).

Ecco perchè ho/avevo paura: perchè non mi sento certo infallibile, e forse (lo penso da un po’) in alcuni casi potrebbe essere interessante leggere le opinioni altrui, eventualmente distaccandosene, facendo loro spazio senza pero’ metterla sul personale se quelle idee non ci piacciono (si scorre oltre e via, magari).

Preso da uno sconforto sostanziale e messe un po’ in pausa le mie attività social (il mio profilo Facebook privato è invisibile ai motori di ricerca e, per qualche strano motivo, accetta il fatto che non usi nemmeno il mio vero cognome, ma una sua traduzione maccheronica), ho fatto la cosa migliore che forse potessi fare: leggere. Staccare dal mondo virtuale, e confrontarmi con qualche libro. Ho letto, in questi anni, molto più di quanto non abbia fatto nei precedenti 10 anni della mia vita, ed ho trovato di tutto: autori che sostenevano il tutto, il nulla ed il contrario di ogni cosa.

Due libri, per due morali differenti

Ci sono due libri che considero un must nel guidarmi verso un nuovo modo di vedere le cose, e che mi spingono a scrivere oggi, su questo blog. Il primo è Credimi, sono un bugiardo! dell’ex pubblicitario americano Ryan Holiday, il secondo è Misinformation di Quattrociocchi/Vicini.

Nel citatissimo (e non troppo conosciuto in Italia, secondo me) libretto di Holiday si racconta di come il celebre pubblicitario conducesse campagne di viral marketing basate sulla provocazione controllata: l’autore mostra un talento per le dinamiche sociali (non solo sui social, ma anche nella vita reale) e sembra riuscire a stabilire un curioso (quanto opinabile, per certi versi) rapporto di causa-effetto. È una tecnica di promozione che mi pare che usino in molti: lancio una provocazione e mi godo l’hype di averla generata. Posso farlo per promuovere maliziosamente il mio brand, ma posso anche farlo per sentirmi importante e considerato (o pluri-citato) dal mondo.

Per promuovere una commedia femminista, ad esempio, racconta di essere uscito di notte ed aver imbrattato con provocazioni sessiste i suoi stessi manifesti, generando una reazione a catena per cui, alla fine, tutti conoscevano il film che era stato incaricato di promuovere. Nel libro sono presenti vari “imprese” del genere che, per quanto eticamente improbabili (per non dire peggio) in alcuni casi, hanno funzionato: erano funzionali, e questo contava.

Ma questo pone una riflessione secondo me ancora importante: applicando il discorso ai social, Holiday si è costruito una personalità pubblica molto probabilmente diversa da come effettivamente lui si trova ad essere, da quello che è il suo sistema di valori personali, ma oggi tutti citano (me compreso) quel libro come esempio clamoroso e, se vogliamo, addirittura virtuoso.

Questo dimostra in prima istanza che ciò che leggiamo sui social non è per forza dettato da autentica convizione, non è necessariamente degno di preoccupazione e, tutto sommato, possiamo accettarlo o contraddirlo anche in maniera per nulla aspra. Peraltro, il discorso andrebbe dirottato molto meno sul personale e, mi permetto di aggiungere, spesso essere puntigliosi o aggressivi nella comunicazione paga poco o nulla (se leggete il mio blog vi accorgerete che io stesso ho commesso questo errore varie volte, ma mi consola, se vogliamo, che anche eminenti VIP, da virologi molti conosciuti a showman di vario genere, lo abbiano fatto e continuino, narcisisticamente, a farlo).

Ma questo vuol dire pure che le verità assolute sono più rare di quanto possiamo credere, e che ognuno di noi esibisce, alla fine, solo la punta dell’iceberg della propria persona, spesso senza riuscire a decidere cosa mostrare e senza, in definitiva, avere il controllo della propria immagine. Molti equivoci fonte di sofferenza personale, forse, si possono spiegare in questa chiave, per quello che vale.

Siamo persone o personaggi?

Confondere il personaggio con l’interprete: sui social è quasi la regola.

Molti sono sorpresi dal profilo social di Anthony Hopkins, ad esempio, da cannibale sullo schermo a simpatico showman di una certa età con un raffinato gusto per il non sense. Persone o personaggi? Si può applicare a banalità (fraintendere quanto scritto in una chat) come a cose più universali (esprimere un parere che viene travisato), ma sempre quello di mezzo c’è. Un travisamento, o se preferite il desiderio di inserirvi in un clichè, in una categoria predefinita, anche se magari non avete intenzione di farne parte.

Esempio. Un annetto fa avanzai leciti dubbi sull’uso indiscriminato di un’app di tracciamento anti-covid, e venni preso di mira da un paio di troll che mi davano del boomer – qualcuno dei quali poi bannato da Twitter – i quali, in alcuni casi, usavano un modus operandi intimidatorio: retweettavano gli interventi con cui non erano d’accordo, al fine di sottoporli a shitstorm da parte dei propri follower.

In altri casi arrivavano a scriverti in privato e a minacciare più o meno subdolamente, e fortunatamente (per indole, esperienza e con un pizzico di apertura mentale) riuscivo sempre a chiudere la discussione senza conseguenze per il mio umore (o peggio). Fa sorridere pensare che la mia preoccupazione / punto di vista non era solo per la privacy, ma soprattutto per lo scetticismo si potesse risolvere una pandemia ricorrendo ad un’app “magica” realizzata in fretta e furia, che a mio avviso ignorava bellamente l’eventuale (e lecita) imperizia o malizia nell’uso di uno smartphone, da parte delle moltissime persone che avrebbero dovuto farne uso. Eppure quella volta venni inserito nel calderone dei “pro-privacy” contrapposti agli anti-privacy, che immagino manifestare su due fronti diversi: i pro-privacy accollati e vestiti a strati, gli anti-privacy nudi ed esibizionisti perchè io non ho nulla da nascondere, signora mia!

Il problema è che sui social interpretiamo personaggi che dall’esterno ci farebbero inorridire, e non ci rendiamo conto che lo stiamo facendo. Per cambiare le carte in tavola, dobbiamo partire dal modo in cui comunichiamo, non prima di esserci messi un pochino in discussione.

Paura delle opinioni altrui?

Arrivo al punto interessante che giustifica il titolo che ho scelto: ma davvero “molta gente ha paura di scrivere sui social network“?

Dentro Misinformation, a riguardo, si propone uno studio scientifico a base statistica delle comunità che nascono sui social, sottolineando un aspetto implicito interessantissimo: analizzando gruppi e pagine Facebook di pensieri contrapposti (novax contro favorevoli al vaccino, per citare un esempio popolare ancora oggi), usciva fuori una sostanziale polarizzazione di fondo. Da un parte amanti e nerd della scienza, dall’altra teorici del complotto, neanche fosse un blocco “muro contro muro” tra tifosi di due squadre. E la cosa incredibile è che quelle dinamiche “calcistiche” si applicano ad un numero impressionante di casi, senza contemplare l’eventualità che si possa andare a braccetto tra tifosi avversari addiirittura ad un derby.

Tradotto in termini spiccioli, la controversa – quanto stimolante – idea del libro è che:

  1. è raro, per non dire impossibile, che qualcuno cambi idea usando un social network
  2. è quasi impossibile che due modi di vedere le cose contrapposti possano interagire senza scontrarsi.

Troppo pessimismo?

Uso i termini “raro” e l’avverbio “quasi” perchè un piccolo spiraglio alla possibilità che non sia così, ovviamente, il libro tende a lasciarlo, per quanto insista su fenomeni psicologici a cui ognuno di noi è soggetto: il narcisismo, il raggruppamento naturale in “tribù” che la pensano allo stesso modo, la ricerca di conferme di convinzioni regresse o sedimentate (bias di conferma, un fenomeno che per lavoro conosco bene: molti clienti che mi chiedono consulenze tendono ad essere affetti).

Insomma, ci dicono Quattrociocchi e Vicini, il social è un mezzo usato troppo e usato male, e non sembra un ambiente adatto per confrontarsi con persone che, in realtà, potrebbero a volte offrire punti di vista interessanti, e questo rifiuto è dettato proprio dal narcisismo congenito del mezzo. Se non avete chiaro di cosa si tratti, ne siamo purtroppo tutti affetti: è la sensazione che si prova quando, ad esempio, ci sentiamo attaccati da post su Facebook altrui che sembrano (sembrano!) riguardarci, o polemizzare indirettamente con noi, anche se non veniamo citati.

Sarebbe un quadro desolante, se non fosse che il libro termina su una frase che instilla speranza:

come reagirebbe Narciso all’empatia?

Bella domanda: ci sono mille risposte possibili, ma l’empatia a volte può funzionare anche solo per sdrammatizzare. Non ho ancora un’idea su come rendere funzionali questi elementi per migliorare la nostra esistenza sui social (e magari, pretenziosamente, nella vita di ogni giorno), ma già averli messi in forma scritta mi consola, visto che sono aspetti che mi preoccupano periodicamente, a maggior ragione del fatto che uso i social anche per lavoro.

Bisognerebbe essere meno “manettari” e più empatici

Arrivo alla morale (se posso dire così) di questo lungo articolo (2000 e passa parole), che vi ringrazio di aver letto fino a qui.

Fermo restando che ognuno, bene o male, porta avanti un proprio personale sistema di convinzioni, credenze più o meno sedimentate e idee (a volte sane, a volte meno, a volte obiettivamente pericolose per sè stessi e per gli altri, altre no), e senza scendere in dettagli sociologici che, per quanto mi intrighino, non sono il mio pane quotidiano, metto sotto la lente di ingradimento un aspetto finale che mi ha sempre molto colpito. Parlo della cultura dell’errore, che è radicata poco o nulla e che invece, nella storia, ha permesso i migliori progressi in ogni campo, semplicemente (?) accettando gli errori e traendone spunto per il futuro.

Esiste una forte tendenza a considerare l’errore umano come un danno irreparabile con il quale attivare meccanismo di senso di colpa negli altri che, nel clima acceso dei social di oggi, avrebbero forse mandato in crisi anche Freud in persona. Sbagliato, secondo me, e chi meglio di un informatico potrebbe dirlo? Ho a che che fare con bug informatici quasi ogni giorno, e guai a demonizzarli: cerco di considerarli serenamente per quello che sono, e magari di applicare lo stesso principio alla vita di ogni giorno, per quanto possibile. Se mi limitassi a demonizzarli, probabilmente alla lunga non farei questo mestiere (atteggiamento evitante di cui sopra).

Torno sul pezzo: se ho paura di scrivere qualcosa sui social perchè temo di non essere capito, o peggio di essere sbertucciato, ed assumo un atteggiamento evitante di conseguenza, posso magari trovare una nuova via di mezzo e sopravvivere anche alle critiche altrui, senza privarmi della libertà di “dire la mia” che ormai riconoscono letteralmente a chiunque. Per esempio: ogni mese, più o meno, ho preso l’abitudine di commentare il post di qualche VIP, cosa che usualmente non avrei mai fatto – per gli argomenti che mi interessano, ovviamente – solo per provare a vedere come me la cavi nella crisis management in caso di flame. Finora nessun feedback, ma vi inviterei a provarci e a non farvi travolgere, nella gestione del commento, dal narcisismo di cui sopra.

In fondo, se le persone hanno “paura” di scrivere ciò che pensano (e anche nelle conclusioni del libro Misinformation viene suggerito anche questo, a giustificare quella polarizzazione tra estremi – mentre Holyday pubblicò quel libro-scandalo solo molto, molto tempo dopo aver concluso la propria carriera di pubblicitario), bisognerebbe fare i conti prima di tutto con se stessi, e chiedersi perchè. Il resto, credo, viene di conseguenza.

La cultura dell’accusa e del rinfacciare l’errore (e anche la percezione che le cose stiano così, che è tipicamente mia, ad esempio) è figlia di ignoranza, senza dubbio, ma è anche il prodotto del narcisismo inconsapevole di cui sopra. Se uno sbaglia, puoi fargli notare la cosa anche sui social senza sbertucciarlo, e sarà più semplice per tutti. L’avessero fatto certi politici in tempi di covid-19, ad esempio, invece di inalberarsi e ostentare il proprio essere gli azzecca-garbugli di manzoniana memoria, non dico che avremmo risolto il problema  – ma ci saremmo risparmiati, noi tutti, centinaia di minuti di ulteriori ansie e preoccupazioni.

Di errori, del resto, il mondo è pieno: il bug più grossolano che abbiamo commesso a livello mondiale nel 2020, del resto, lo conosciamo: sottovalutare la pandemia e declassarla ad una semplice influenza, quando non lo era per niente. O ancora, pensare che da noi non sarebbe mai arrivata…. Non per questo, pero’, chi ha sbagliato dovrebbe essere criticato allo sfinimento, secondo me, o considerato un imbecille senza appello: perchè gli errori sono congeniti nella natura umana, e prima impariamo a rapportarci serenamente con loro, meglio (forse) sarà. (Foto di copertina di Joshua Gandara su Unsplash)

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Salvatore Capolupo

Ingegnere informatico dal 2006.