Provateci voi, a restare

La mia scelta di andare via dal sud è maturata tardivamente: ho provato a rimanere, da piccolo freelance e libero professionista – per 10 e passa anni. Ad un certo punto ho rotto ogni indugio e sono andato via: la maggioranza dei miei amici lo ha saputo a fatto compiuto, tranne pochissimi. L’ho fatto in ritardo rispetto alla media dei miei coetanei – distinguermi dalla massa è una mia prerogativa, a quanto pare – coetanei che, in un caso su due di mia conoscenza, andava via tra i 18 e i 30 anni (io ne ho 39).

Mi sento chiamato in causa, pertanto, dalle riflessioni di Florindo Rubbettino sul Foglio, con cui ho lavorato felicemente per quasi un anno (eccezione quasi unica, nel panorama nostrano, per quel che mi riguarda), ma con cui non condivido le conclusioni dell’articolo, pur facendolo rispetto alla sostanza dei dati, e a buona parte delle premesse.

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A proposito di premesse: mi sono da poco trasferito a Roma, e non mi considero un vero e proprio “emigrato” – anche solo per il fatto che non sono andato a lavorare in miniera. Molti impiegatucci mediocri, purtroppo, quando vanno a lavorare al nord o fuori Italia, stando alla loro narrazione, sembra di immaginarli col machete in mano, a farsi strada nella foresta impervia e selvaggia, in un mondo in cui quelli del nord sono “freddi” mentre noi siamo “caldi“. Magari poi fanno gli impiegati a Milano: non proprio un must, per chi sembrava amare la natura.

La mia famiglia è felice di avermi fuori, e spero non perchè non mi sopportano, ma perchè – battute a parte – conoscono bene le mie motivazioni. Quando ci rivediamo o si riparte, lo si fa e basta: senza lacrime, senza patemi, senza retorica sui “ggiovani” che impoveriscono la Calabria, senza menate sul fatto che non torneremo più. Del resto io l’ho detto: scusateci, ma dobbiamo pensare a noi stessi – al nostro futuro, alla nostra unica vita, a fuggire dalla provincia sudista che uccide, lentamente, ogni giorno (come ogni provincia che si rispetti).

E per eventuali voti di scambio rivolgersi in segreteria dalle 9 alle 18.

Punto primo: d’accordo, basta con la retorica del “piangere il cuore” quando si torna a casa. È una retorica melensa e stereotipica del calabrese “medio” – quello tutto cuore e stomaco, inventato da un immaginario vagamente razzista, secondo il quale saremmo, oltre che mangioni, mammoni, all’antica e limitati. Se la pensate seriamente così su di noi, siete senza speranza – per non dire peggio. E non è questione di meridionalismo: è questione di guardare la realtà.

Del resto la nascita non si sceglie: chi viene al mondo a Milano e passa l’adolescenza col futuro Fedez, chi vive nello stesso quartiere in cui lo ha fatto la Raggi, chi era compagno di banco di Donald Trump. Non si sceglie: è inutile pensarci. Si può pensare di cambiare, se non altro, anche tardivamente, nel momento in cui semplicemente quel mondo non ti piace (no, non servono motivazioni “serie” per farlo: si può anche fare e basta, a patto di avere le idee chiare). Per cui basta retorica: a nessuno dovrebbe davvero piangere il cuore se emigra dal sud o quando ci ritorna, anche perchè il sud è voluto diventare così (almeno credo), e perchè la scelta di andarsene è fatta da chi cerca una condizione di vita migliore. Cosa che al sud è spesso, mi pare, difficilotta da trovare (per non dire peggio).

Punto secondo: d’accordo che il lavoro serve a vivere, ma il sud non soffre solo il problema del lavoro. Soffre anche di un problema di socialità non espandibile, che influenza le vite di tutti. In quest’ottica, ergersi a paladini solitari del cambiamento finirà, semplicemente, per farci sentire più soli che mai (le pacche sulle spalle magari te le danno, eh: costano nulla, e fanno tanto “calore della gente del sud”)

Provateci voi, ad uscire in un qualsiasi paese del sud, e troverete spesso il nulla: luoghi in cui la gente socializza per arricchire gli imprescindibili bar (se c’è un altro posto decente in cui andare tipo un teatro, un cinema, anche solo un pub con musica dal vivo, è un miracolo), o al limite si esce di casa in caso di calamità. Con la maggioranza degli amici di sempre fuori dalla Calabria, provateci voi a fare nuove amicizie: specie se avete un’età superiore ai 30 ed inferiore ai 50 anni. Provate a starci e fatemi sapere – altro aspetto che secondo me smentisce lo stereotipo irritante “dell’ospitalità” e del “calore” del sud, che a mio avviso sono collocati nella media nazionale. Al sud, più che altro, il mondo è piccolo – in tutti i sensi possibili – per cui ogni cosa si avverte di più di quanto non succeda, ad esempio, in una strada qualsiasi di Milano.

Noi che andiamo via azzardiamo a costruirci un futuro sereno, libero da preconcetti, da provincialismo-piovra, dalla “comare del paesino” che mi chiede ancora oggi, a quasi 40 anni, se mi sia trovato la fidanzata o se continui a fare quei lavori strani al computer. Non avrebbe senso rimanere, visto che è proprio l’ambiente che stiamo contestando. E scusateci davvero – nostro limite, dettato dall’essere più sfiniti che mai – se non abbiamo tempo, voglia e volontà di fare l’impresa nella nostra terra (io ci ho provato, ma non era realistico), vittima di una mentalità a spirale, discontinua e depressa che neanche un valido team di psicologi sarebbe in grado di guarire.

Non si campa di solo lavoro, amici. E allora provateci voi a sorridere a qualche potenziale partner che incontrereste in quei paesi del sud (quasi sempre indifferenza), provate a chiedere loro di prendere un caffè assieme – non dico finirci a letto, per carità: giusto uscirci, una volta, addirittura due o tre. Nonostante l’apparenza dica il contrario – paese piccolo in cui ci si conosce tutti – vi troverete a fronteggiare spallucce, supercàzzole tra l’epico ed il patetico, gente piccola quanto i paesi in cui vive e che usa bellamente i propri problemi per schermare qualsiasi rapporto (anche superficiale) e vivere safely nella propria piccola, “a misura d’uomo” (altro stereotipo terrificante, per le cittadine nostrane) campana di vetro. Il sud non rischia abbastanza, fa così quasi per DNA, e lo fa purtroppo in quasi tutti i campi.

Provateci voi, ancora, ad organizzare un evento, a vedere un amico per fare qualcosa di diverso dall’indefinibile, provate a cambiare giri di frequentazione: e dove la trovi la gente, se non esce nessuno? Provate ad andare in un posto dove ci siano altre persone più o meno come voi, e non il paesano che frequenti per forza di cose (sono crudele, forse, ma serve a rendere l’idea).

Quando il mondo è piccolo, come al sud, non solo tutti sanno tutto di tutti, ma le opportunità si riducono all’osso. E si riducono tutte: lavorativamente, socialmente, sessualmente. Puoi cavare sangue dalle rape finchè vuoi (e fartelo bastare), ma prima o poi ti stanchi: devi mollare tutto, per forza. Ed io al sud ho vissuto pienamente per almeno 20 anni, organizzando eventi, facendo teatro, creando “cose” virtuali che a volte neanche pagano, perchè “c’è la crisi” – il paravento nazionale degli scrocconi di lavoro altrui, con Premio Speciale alla Calabria. Per uno come me non è (mai stato) l’ambiente ideale.

Siamo d’accordo che il lavoro sia importante e serva a vivere, e che al sud non ce ne sia – ma non è solo questione di lavoro: ce ne andiamo per un problema sociale, anche se per molti di noi è duro da ammettere. Cosa dovremmo provare a cambiare, alla fine? La gente non può vivere per lavorare e basta (ok, il modello liberista non è il massimo, ma il lavorismo di ripiego riesce ad essere anche peggiore): pensarla così significa che non solo alcuni sono fagocitati dalle logiche del guadagno, ma lavorano anche per non pensare a dove si trovano davvero. Ovviamente, e questo posso capirlo, chi ha una propria famiglia al sud non sarà d’accordo con me: ma qui si parla di singoli, i singoli che vengono spesso ignorati dalla cronache e, per inciso, anche poco aiutati dal fisco. Del resto parlo a nome di chi vive una situazione free, e sia arrivato a ritenere che fosse davvero ora di cambiare aria.

E infatti: al sud non si lavora, ma quando si ha la fortuna di farlo si tende a far quello e basta, considerandolo una manna da cielo e prestandosi facilmente, purtroppo, a logiche di sottomissione nei confronti del generosissimo Presidente di turno (di fantozziana memoria) che glielo ha addirittura concesso. Il mondo è piccolo, da noi, per cui chi si azzarderà a contraddire quando ti chiederanno gli straordinari senza pagarli? Questo è alienante, specie in una micro-società come la nostra, e tende a costruire una visione del resto del mondo distorta, fuori dalla realtà. Si lavora a qualsiasi condizione, al sud, anche perchè non c’è molto altro da fare – ed ecco perchè è facile sfruttare il lavoro, al sud: mi faccio sfruttare, massì, è sempre meglio che non fare nulla (so bad is so good).

E quando si esce dal lavoro, che si fa? Si va a fare la spesa e si torna a casa: game over. Se non altro, se volessi, in una grande città le opportunità ci sono, per chi fosse interessato ad attività ricreative di ogni genere. Al sud, quando ci sono, sono un’eccezione che conferma il mantra non c’è niente.

Provateci voi ad organizzare una serata di teatro (come facciamo in famiglia da sempre), e vedrete se il campionato di serie A o il nichilismo da bar non avranno il sopravvento sulla maggioranza del potenziale pubblico.

Lavoro ce n’è poco, ti devi accontentare, come osi dire “mi sembrano poche 500 euro al mese“, c’è chi non ne ha, ci sputi sopra? Ah questi presuntuosi, i nostri nonni hanno lavorato la terra da sempre, sacrificio bla bla bla. Anche qui: fiumi di retorica. La Calabria – ed il sud in generale – sono vittime di questo storytelling bizzarro, a volte retrogrado a volte no (dipende se conviene o meno), legato ad una mitologia del sacrificio (che poi, salvo casi illuminati e ben noti, nel piccolo diventa masochismo) e che, prima di tutto a noi calabresi, piace troppo.

Ecco perchè il mio futuro non sarà qui: vado fuori dalla Calabria per provare a raccontare una storia diversa, prima di tutto a me stesso – perché le vere rivoluzioni partono da noi, prima che dalla “società” che ci circonda.

E al sud, personalmente, non credo di avere più la lucidità, la voglia e la “garra charrua” per fare nulla. Ecco perché la gente va via dal sud: per il lavoro che manca, certo, ma anche perché si stanca di dover elemosinare socialità miope e sterile, perché capisce che le logiche lavorative sono dettate spesso dal compare che si aspette un prezzo di favore (lavorare di più, lavorare in pochi, guadagnare quasi nulla), o anche perché – da single di ferro – si è stufato di rincorrere persone orgogliosamente provincialiste, che piazzano infiniti paletti quando le conosci (a volte re e regine del party di periferia, altre torri d’avorio inaccessibili, questo se solo ti azzardi a cercare un rapporto equilibrato, serio o leggero che sia). E chi mi risponderà che sto generalizzando o che sono troppo pessimista, credo, finirà per darmi ragione senza volerlo riconoscere in pubblico (è l’unica vera presunzione che mi permetto, in questa sede).

Provateci voi, a fare qualcosa di davvero divertente (e scordatevi dei mezzi pubblici): al sud non c’è moltissimo in giro, salvo le cose che alcuni volenterosi organizzatori realizzano, spesso snobbate dai più (salvo poi lamentarci tutti, perché lamentarsi fa molto sud), questo soprattutto se si tratta eventi della famigerata “nicchia“. Chiunque abbia mai provato ad organizzare un concerto rock o un cineforum al sud dovrebbe sapere di cosa parliamo.

Last but not least: lamentarsi è fuori dal mondo, poche storie. Non lamentiamoci: agiamo, partiamo, cambiamo, osiamo. Non voglio invitare alla migrazione di massa (anche perchè non sono nessuno per farlo), ma proviamo a cambiare andazzo. La vita è una, e 100 disgrazie da vivi sono comunque meglio di 10 lamentele  sterili su X che è morto, sulla vita ingrata, sulla questione meridionale (che conosciamo dalle scuole medie), sul lavoro che ci sfrutta e su altri n problemi che rischiano di far diventare le nostre vite, alla lunga, sempre più mediocri.

Stare qui, alla lunga, non è (più) un atto di coraggio: rischia di diventare un vuoto sacrificio in nome di una Rinascita che, soprattutto per presa di posizione di troppi altri coinquilini sudisti, a queste condizioni non potrà mai arrivare.

Sia chiaro che non voglio creare contrapposizioni assurde o personalismi, nello scrivere queste 2000 parole (o giù di lì): del resto si scrive di ciò che si sa. E al sud si insiste (forse in nome di una malintesta cocciutaggiune) a frustare un cavallo morto.

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Salvatore Capolupo

Ingegnere informatico dal 2006.