Il keyword stuffing ci ha fregati

In ambito SEO tutti dovremmo conoscere il keyword stuffing ed i problemi che può causare: su tutti, un prolificare di pagine web inutili per gli utenti, difficili da consultare e – nonostante tutto – spesso capaci di primeggiare sui motori di ricerca. Probabilmente è la tecnica (errata) più elementare che si conosca, e sfido qualsiasi SEO a non riconoscere di aver provato, anche solo a livello di test, ad “ottimizzare” una pagina in questo modo balordo. Se questa pratica serve a fare esperienza e ad evidenziare i limiti dei motori di oggi, seppur in misura inferiore rispetto al passato, non può fare parte di alcun tipo di strategia seria.

Sappiamo bene, insomma che una pratica del genere è altamente sconsigliata, e che risulta controproducente e rischia solo di fare del male al nostro sito, danneggiandone la reputazione agli occhi di Google e rischiando penalizzazioni pesanti. La SEO va vista in ottica più ampia, e valutata caso per caso a partire soprattutto dal profilo medio degli utenti attivi (es. disposti a comprare, interessati ad abbonarsi ecc.) che cercheranno il nostro sito.

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Volendo vedere la questione da un’ottica leggermente diversa, ci sono molti SEO che tendono a rivalutare impropriamente questa tecnica: mi è capitato più volte di leggere articoli incentrati sulle “tecniche” di scrittura per posizionare un articolo in prima pagina, ad esempio. L’approccio sembra quasi convincente, anche ad uno scettico per natura come il sottoscritto, non fosse altro che era affrontata in maniera concreta & convincente e che spesso, per nicchie particolari, si riesce a posizionare un articolo molto bene (ed altrettanto rapidamente) addirittura senza fare link building (tipicamente, nella mia esperienza, sfruttando domini con alto trust o con uno storico di spessore). Caso specifico, comunque, ma con cui bisogna fare i conti: in questi casi non è affatto raro che l’articolo “ottimizzato” così sia in prima pagina, e presenti una ripetizione sconcertante della stessa parola chiave, evidenziata in bold poi inserita a casaccio nel titolo, ripetuta all’infinito come se i lettori fossero scemi – quando in realtà sarebbe bastata scriverla una volta o due, anche per rispetto alla lingua italiana. Ci si convince facilmente che la causa (falsa causa!) per cui un articolo si posiziona bene su Google sia da attribuirsi spesso, specie nel caso di content marketing improvvisato, al keyword stuffing.

Nel fare questo genere di considerazioni fuori target, insomma, è bene ricordare ancora una volta che correlation does not imply causation: in altri termini, ricordatevi sempre che fattori tipo keyword stuffing noi pensiamo siano irrinunciabili o vitali, ma in realtà non è dimostrabile che abbiano nulla a che fare con la SEO. Questo secondo la logica ingannevole della generalizzazione indebita, o peggio ancora principio della falsa causa: in parole semplici, è fin troppo facile in ambito SEO attribuire a cause ridicole fenomeni – come il posizionamento su Google – su cui nessuno saprà mai davvero nulla. Siamo d’accordo che quegli articoli sono in prima pagina, ma 1) è abbastanza certo che siano bombardati da negative SEO di frustrati vari 2) è altrettanto sicuro che siano segnalati come spam 3) di certo la concorrenza non starà a guardare e le cose è plausibile che cambino nel medio periodo. La realtà delle cose vorrebbe, insomma, più saggiamente considerare una molteplicità di fattori in ballo, che possono andare dalla reputazione del sito che pubblica l’articolo, al numero ed al tipo di citazioni spontanee che è riuscito ad attrarre (autorevolezza), all’età ed allo storico (numero di pagine indicizzate) del dominio, al numero di riferimenti esterni alla pagine e così via. Esiste un contro-test molto facile da effettuare: provare a pubblicare su Storify o siti simili una pagina web con keyword stuffing, e vi renderete conto di quanto sia difficile / impossibile riuscire a posizionarla su una chiave competitiva. Parlo ovviamente di ricerche almeno un minimo competitive, non di quelle che interessano il pub sotto casa con 30 clienti a settimana.

Se è vero che qualche tempo fa il keyword stuffing se non altro si nascondeva ai visitatori via CSS (se non altro, nascondevi la spazzatura sotto lo zerbino), adesso mi pare che questa tendenza sia addirittura scomparsa: la nostra spazzatura ve la mostriamo, è “bella” e ce ne vantiamo pure. In questi casi, si ha più rispetto delle norme fallaci di Google che dei propri clienti/utenti, quando sono questi ultimi che andrebbero più rispettati di tutti.  A certi blogger eccita parecchio, ancora oggi, fare keyword stuffing, e se ne vantano pure.

Più plausibilmente pero’, il loro posizionamento buono deriva da altri fattori che nessuno sta ancora realmente considerando, e che una volta individuati ci permetterebbero davvero di fare la differenza, e fare finalmente concorrenza seria, ai suddetti. Riuscite ad individuare questi fattori? Personalmente sono riuscito a capire quali siano, almeno in parte, solo dopo aver lavorato duramente su un settore specifico (quello degli hosting web) per molti anni, spesso a contatto con la mentalità di queste aziende e cercando di profilare delle personas, cioè dei “profili medi” di chi cerca un servizio di hosting.

Ad esempio:

  1. una pagina ottimizzata dedicata a Mario, un freelance squattrinato che cerca hosting per WP rigorosamente economici;
  2. un’altra pagina incentrata sulle offerte per l’utenza media di Luigi, Gianfranco e Gennaro, il “nocciolo duro” che poi compra la maggioranza delle offerte;
  3. una pagina ulteriore dedicata a Donald, CEO di un’azienda di software alla ricerca di un server dedicato per i servizi che dovranno pubblicare ai propri clienti;
  4. l’idea, insomma, è che dovremmo superare l’idea di keyword stuffing per concentrarci su quella di ottimizzazione del cliente medio, del visitatore occasionale che potrebbe un giorno imbattersi nel nostro sito, e metterlo da subito in condizione di trovare ciò che si aspetta in modo “su misura” per lui;
  5. …e così via, mettendo in coda ad ogni domanda e ad ogni rispettiva personas l’ulteriore richiesta: cosa potrebbero cercare, realisticamente, queste persone?

Partendo da questo è quantomeno più logico costruire pagine web ottimizzate e potenzialmente più facili da ottimizzare, senza contare che poi lo stile (o la tecnica) di scrittura non rispondono a principi assoluti ma rigorosamente relativi: faccio sempre l’esempio, tra colleghi, che se pagine scritte male in italiano insospettiscono e non fidelizzano l’utente che compra gadget tecnologici costosi (e che magari è un nerd della letteratura), probabilmente funzionano benone per promuovere servizi per adulti.

Probabilmente chi si aspettava formule magiche per la SEO rimarrà deluso dalla lettura di questo articolo; ma tutti gli altri, forse, avranno trovato qualche spunto per ragionare di più sulle proprie attività di ottimizzazione.

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Salvatore Capolupo

Ingegnere informatico dal 2006.