Fallacia di presupposizione: un equivoco SEO che ha falsato molte analisi

L’analisi di Backlinko (2020)

Backlinko aveva, quasi due anni fa ormai, analizzato un campione di quasi 12 milioni di risultati e, come spesso fa, ha cercato di dedurre indicazioni utili per i SEO. Analizzano un grosso campione di dati, in sostanza, e cercano di tirare fuori i ranking factor. Per chi non volesse scomodarsi a leggere tutto per intero, riassumo qui brevemente.

  1. il domain rating di Ahrefs tende a mostrarsi come una metrica valida per il posizionamento
  2. le pagine con più backlink si posizionano meglio di quelle che ne hanno di meno, in media: Backlinko sostiene che i risultati in posizione 1 abbiano 3.8 backlink in più di quelli nelle posizioni dalla 2 alla 10.
  3. i contenuti posizionati meglio avevano la metrica “Content Grade” (calcolata via Clearscope) di quelli che ne avevano una scarsa
  4. Non c’è correlazione tra buon punteggio di velocità di caricamento con Alexa e posizionamento in prima pagina (scelta singolare, il tool di Alexa, che capisco poco – chi aveva mai sentito nominare Alexa per questo, prima di oggi! Giustamente non hanno usato il PageSpeed Insights, dato che i punteggi del PSI possono cambiare anche di molto, se li effettui può volte di seguito – ed è Google stessa ad ammetterlo!)
  5. Il numero di domini unici che linkano un sito sembrano fare la differenza in termini di posizionamento, quindi più sono numerosi meglio è (ne avevamo parlato anche in passato su questo sito).
  6. Non c’è correlazione lato ranking nell’uso della keyword da ottimizzare all’interno del title.
  7. La metrica di Ahrefs page authority mostra una correlazione debole con i ranking in prima pagina su Google
  8. I contenuti che vanno in prima pagina hanno una lunghezza di 1.447 parole (per la gioia degli amanti delle landing page con lenzuolate di testo)
  9. la dimensione della pagina HTML non è correlata al posizionamento
  10. c’è una piccola correlazione positiva tra brevità degli URL e posizionamento in prima pagina
  11. I rich snippets non sembrano influenzare o dare una mano per il ranking
  12. I siti in cui le persone tendono a rimanere per più di 3 secondi si posizionano meglio (metrica “time on site”)

Questo è quanto.

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Come funzionano questi studi

Nessuno sa come funzioni davvero Google (e, aggiungo, anche se lo sapessimo secondo me ben in pochi avrebbero le conoscenze e gli strumenti per capirci qualcosa). Per cui questi studi raccolgono dati pubblici di Google mediante scraping, li danno in pasto a software proprietari (di cui non sappiamo nulla neanche qui, dato che non sono open source) ed ecco i risultati che abbiamo appena letto.

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In mancanza d’altro, si effettuano (e si analizzano) spesso in ambito SEO studi di natura statistica che tendono a legare “cause” (backlink acquisiti, variazioni nel title del sito, ecc.) ad “effetti” (miglior posizionamento di una pagina per il termine X): le virgolette sono d’obbligo, in questo caso, altrimenti sarei già partito col piede sbagliato.

Non sono stati rari casi in cui escano fuori studi che, ad esempio, mettono in correlazione il tipo di title utilizzato con il posizionamento – è stato un mantra del passato per molti SEO, ed in molti casi lo è ancora. Uno dei modus operandi più diffuso era quello di inserire la parola chiave all’inizio del titolo, il che dovrebbe produrre effetti benefici al posizionamento.

Qual è il problema: i bias

Non voglio sminuire il lavoro fatto da Backlinko, che offre spunti di riflessione graditi (ed ha lavorato seguendo un metodo statistico effettivo, attendibile), anche se poi ho l’impressione che la gente, come sempre, interpreterà tutto a modo proprio, influenzata dai propri bias cognitivi o da criteri ancora più infimi.

Detta molto in breve, quegli studi statistici potrebbero dire tutto e il contrario di tutto, ed ognuno di noi – in media – cercherà solo di trovare conferme alle proprie convizioni (anch’io l’ho fatto, in fondo). Accettiamo ad esempio, di quegli studi (ne escono decine ogni anno), solo ciò che secondo noi era già vero prima: è il considdetto bias di conferma, un processo mentale inconscio che ci fa tendere a conferire maggiore credibilità alle cose che ci dicono e che confermano le proprie convinzioni e, viceversa, ignorare quelle che le contraddicono.

Ma ne potremmo trovare anche altri, in effetti:

  1. Apofenia o patternicity: tendenza a rilevare relazioni tra dati casuali, un po’ come fanno i ludopatici che si inventano, o credono di inventarsi, “relazioni” tra i numeri del lotto;
  2. Bias di ancoraggio: la propensione a prendere decisioni basandosi sulle prime informazioni trovate. Leggo che non c’è correlazione tra PageSpeed Insights e posizionamento, per cui (?) non curerò più la velocità del mio sito.
  3. Bias dei dettagli seduttivi, cioè ci convinciamo che ciò che ci piace fare sia più rilevante per posizionarci meglio. È una delle trappole peggiori, per un SEO!
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La lista dei bias ingannevoli potrebbe proseguire, ma per brevità la chiudo qui.

È solo “intrattenimento”

Al di là delle obiezioni sul metodo, c’è da chiedersi se il metodo funzioni o meno: la vera domanda, pero’, è chiedersi se c’è modo di accertarsi che quel metodo sia effettivo. Siccome i fattori SEO non sono quantificabili se non “a spanne”, è praticamente impossibile fissare l’attenzione su un singolo aspetto che governi tutto il resto. Quindi, detta brutalmente (e senza offesa, s’intende), tutti gli studi di questo tipo che evidenziano fattori di correlazione tra eventi sono puro intrattenimento per il lettore, non suggeriscono alcuna “regola” da applicare e sono scritti, spesso, come pura tecnica di link baiting in cui, puntualmente, cascano tutti.

Pero’ molti SEO li apprezzano

Molti contro-obiettano che queste tecniche siano innocue, tutto sommato suggeriscono solo dei trend e non tutti sono obbligati a seguirli: ho sembra risposto a queste persone che questo genere di approccio alla SEO è fuorviante e sostanzialmente cattivo, nonostante tutto.

Correlazione non è causalità

Questo perchè sbaglia metodo dall’inizio, e perchè inganna sulla falsariga del noto “correlation does not imply causation“. Due eventi possono, insomma, essere correlati e non avere nulla a che vedere tra loro, come affermato dal celebre esempio della religione parodica dei pastafariani.

Dicono che le correlazioni corrispondono spesso a buone pratiche SEO, e quindi non ci sarebbe nulla di sbagliato nel seguire il trend; ma posso comunque seguire buone pratiche senza farmi deviare dalle correlazioni, che potrebbero spingermi a spingere esclusivamente alcuni fattori ignorando il resto. Per quanto credibili possano essere, si tratta pur sempre di correlazioni spurie, le stesse mostrate su Tylervigen (tra le migliori: esiste una correlazione di oltre il 99% – quindi altissima – tra le spese americana per scienza, spazio e tecnologia e numero di suicidi per impiccagione, strangolamento e soffocamento; significa per caso che se gli USA decideranno di spendere di meno nella ricerca diminuiranno i suicidi?).

Per quanto dispiaccia ammetterlo, bisogna dedurne che buona parte del modus operandi di alcuni SEO è basato su una fallacia di presupposizione, cioè un equivoco dato per buono fin dall’inizio.

E su questo, mi spiace, non cambio idea.

Foto di Goumbik da Pixabay

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Salvatore Capolupo

Ingegnere informatico dal 2006.